martedì 8 febbraio 2011

Diario cambogiano

Niente diario taiwanese, come promesso.

Diario cambogiano, invece, visto che quattro dei diciassette giorni li ho passati proprio in Cambogia, uno dei tanti stati sfigati del sudest asiatico che però ha la fortuna di possedere uno dei siti archeologici più grandi e più belli del mondo: Angkor.

Edificato fra il IX e il XV secolo a cura di diversi re khmer (l'originario popolo cambogiano), si tratta di una vera e propria città con decine di templi e costruzioni di varia tipologia, anche monumentali, laghi, canali, ponti e strade, tutti in pietra arenaria e lavica. L'insieme è grandioso, spettacolare, un vero e proprio trionfo di architettura spesso abbellita da bassorilievi, sculture e decorazioni, e viene da domandarsi quanta fatica, quanto impegno economico e soprattutto quante vite umane sia costato un progetto del genere, che peraltro non aveva alle spalle un popolo di altissime capacità ingegneristiche come i romani. Il tutto in mezzo alla giungla.

E proprio la giungla si è lentamente reimpossessata del territorio, a partire dal quindicesimo secolo, quando il popolo khmer si è spostato più a sud, pressato dalla sempre maggiore aggressività dei vicini tailandesi. Per quattro secoli si è praticamente persa memoria di questa città, che è stata ricoperta dalla vegetazione. Solo a metà dell'Ottocento venne riscoperta quasi per caso da un archeologo francese e da allora è iniziato un lento recupero, con il sussidio di quasi tutte le nazioni del mondo (Angkor è patrimonio dell'umanità). Oggi il sito è frequentato da una media di oltre due milioni di turisti all'anno, ed è praticamente tutto visitabile, ma ci sono ancora milioni (probabilmente) di pietre crollate da risistemare come in un gigantesco puzzle che forse non potrà mai venir completato del tutto.

Luogo simbolo è un labirintico tempio chiamato Tah Prom, che è stato (in parte volutamente, in parte per obbiettive difficoltà di intervento) lasciato ancora parzialmente nelle grinfie della giungla: alberi giganteschi sono cresciuti addossati, o addirittura sopra i muri e i palazzi, e non si capisce se li proteggano o li minaccino. E' uno straordinario connubio fra opera dell'uomo e natura che è difficile descrivere a parole: bisogna vederlo, toccarlo con mano.

Per una descrizione meno sommaria vi rimando a qualche buona guida o, eventualmente, a una visita.

Naturalmente della Cambogia mi hanno colpito anche altre cose. Il nuovo, imponente flusso turistico ha portato soldi e lavoro a un paese che prima era fra i più poveri e disgraziati dell'Asia. Letteralmente massacrato da una feroce guerra civile che negli anni 60 e 70 ha dimezzato la popolazione con il famigerato regime comunista di Pol Pot e dei khmer rossi (non mi dilungo, ma Hitler al confronto era quasi una mammoletta), si è poi lentamente ripreso, ma ancora ci sono ampie sacche di povertà e si vedono. In prossimità dei templi si viene aggrediti da torme di bambini che vendono di tutto (libri, cartoline, magliette, frutta, piccoli oggetti di artigianato). Bambini straordinari, tra l'altro, che parlano una quantità di lingue in modo abbastanza fluido e che sono sì, insistenti, ma che alla fine anche se non compri niente ti salutano con un sorriso. Nella vicina città (Siem Reap, un borgo insignificante cresciuto negli anni a dimensioni spropositate, pieno di alberghi elegantissimi e brulicante di vita soprattutto notturna) non ci sono autobus, non ci sono taxi, ma ci sono i tuk-tuk, calessini a quattro posti tirati da motociclette (una sorta di versione moderna del riksciò) che ti portano dappertutto per somme modeste. Le strade sono asfaltate solo in parte, i mercati sono dimessi, non esattamente modelli di pulizia, ma animati, e dappertutto si ha la sensazione che i cambogiani siano un popolo di giovani: e in realtà lo sono, visto che il regime di terrore di Pol Pot ne ha fatti fuori a milioni. La loro moneta (il riel) non vale niente e il dollaro la fa da padrone (tanto per cambiare). In questi giorni (il loro inverno) si raggiungono tranquillamente i trenta gradi (la nostra estate). Non oso pensare che cosa sia la loro estate.

Fisicamente i cambogiani ricordano i vietnamiti: sono in effetti una via di mezzo fra gli indiani e gli asiatici veri e propri. Scuri di pelle, con lineamenti molto belli e modi assai gentili. E le donne sono fantastiche.

Per concludere, questa volta ho mangiato di tutto, anche a Taiwan: senza farmi troppe domande mettevo in bocca quello che mi ritrovavo davanti. Se mi piaceva bene, sennò lo lasciavo lì. Dopo cinque anni ho finalmente imparato l'approccio giusto. E molte cose le ho anche apprezzate. Non ho assaggiato il ragno fritto cambogiano, ma solo perché non ne ho avuto la possibilità. Chissà, se me lo avessero offerto forse avrei assaggiato anche quello.


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