sabato 26 febbraio 2011

L'Africa e il vecchio continente

Prendete un atlante e cercate la carta geografica dell'Africa settentrionale: nell'ordine, da ovest, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto. Tutte nazioni sconvolte, fra gennaio e febbraio, da rivolte interne contro il potere. E la cosa non sembra fermarsi qui. Al di sopra dell'Africa c'è l'Europa, e in mezzo il Mediterraneo, un mare piccolo, inadeguato. In alcuni punti i due continenti quasi si toccano e probabilmente una volta erano uniti. Adesso l'Europa sembra quasi voler tenere alla larga l'Africa, con Spagna, Italia e Grecia che protendono pateticamente le braccia come a dire: altolà, non passa lo straniero.

Quanto resisterà il vecchio continente? Perché andatevi a guardare che cosa c'è sotto i paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo: tutta la smisurata galassia delle nazioni più sfigate che da sempre sopportano una vita grama, governi corrotti, sfruttamento, fame e miseria. Nell'indifferenza più totale del ben pasciuto e miope occidente. Quanto ci vorrà prima che il tappo della disperazione africana esploda, in una reazione a catena che sarà solo un pallido riflesso di quella a cui abbiamo assistito negli ultimi due mesi? Prima che Mali, Niger, Chad, Etiopia, Somalia e compagnia bella comincino a ribellarsi e poi a premere verso nord in cerca di una vita migliore? Il muro granitico di stati dittatoriali eretto lungo il Mediterraneo a protezione dell'Europa (che li ha appoggiati fingendo di indignarsi quando andavano un po' oltre le righe) si è sgretolato e non potrà reggere la spinta di popolazioni affamate e disperate, che non hanno nulla da perdere. Lo scenario è apocalittico ed evoca situazioni già vissute quando l'impero romano andò in pezzi sotto l'incalzare delle invasioni barbariche. Fine di un'epoca, inizio di un'altra.

Sono gli africani i nuovi barbari, e già bussano alle porte dell'impero europeo, debole, mai realmente unito, da sempre combattuto fra un malinteso senso di solidarietà verso i più deboli e un'atavica tendenza all'isolamento culturale, privo di autentici ideali e soprattutto di genuini stimoli della carne, e perciò inevitabilmente destinato a soccombere. Non saranno i cavalli dei cosacchi ad abbeverarsi in Piazza San Pietro, ma uomini dalla carnagione scura temprati da secoli di abbrutimento, forse accesi dal fuoco dell'invidia, di certo da quello della fame. A loro dovremo rendere conto del nostro egoismo, della nostra ignavia, e non potremo aspettarci clemenza.

Sembra la trama di un romanzo di fantascienza, ma attenzione: spesso la fantascienza ha anticipato situazioni poi puntualmente verificatesi. E ricordiamoci anche il concetto vichiano dei corsi e ricorsi storici: la storia tende a ripetersi. Ho la forte sensazione che si stia chiudendo un'epoca, e che quella che seguirà non sarà per niente rose e fiori.


sabato 19 febbraio 2011

Il 17 marzo

La storia ci insegna che il 17 marzo 1861 il Regno di Sardegna, annessi buona parte degli stati preunitari, assunse il nome di Regno d'Italia e Vittorio Emanuele II ne venne proclamato re. Già il fatto che Vittorio Emanuele abbia mantenuto il numero 2 e non abbia scelto, come sarebbe stato logico per un'entità nazionale appena creata, il numero 1, la dice lunga sull'intenzione dei Savoia di considerare il nuovo stato come un semplice ingrandimento del Regno di Sardegna, diverso solo nel nome ma non nella sostanza. Tutto rimase come prima, a parte le dimensioni geografiche, anzi si avviò un processo di piemontesizzazione che è durato nel tempo, anche quando la capitale fu spostata prima a Firenze e poi a Roma. Ne vediamo ancora le tracce negli orribili edifici ministeriali romani e nella struttura burocratica, pesante e sonnacchiosa, tuttora esistente.

Bisognerebbe poi aggiungere che mancavano ancora diversi pezzi per considerare l'Italia davvero unita: il Veneto, il Trentino, il Friuli, la Venezia Giulia e il Lazio, solo per citare i più importanti.

Tuttavia non si può negare che quel 17 marzo fu un giorno significativo e di certo un momento unificante, almeno rispetto alla situazione frammentata che esisteva prima, con stati e staterelli, regni, principati e granducati che si dividevano la penisola.

E dunque posso anche convenire che, se proprio si deve scegliere una data da eleggere a festività ufficiale per la nascita dello stato italiano, questa possa essere il 17 marzo.

Da ieri è ufficiale. Non so ancora se sarà una festa definitiva, ma il 17 marzo di quest'anno non si lavora. La macchina della retorica risorgimentale avrà così modo di esprimersi (migliaia, tra l'altro, le iniziative per celebrare l'avvenimento, molte delle quali inutili e costose) a fronte di un'Italia che invece si sta minacciosamente sfasciando: un po' per le spallate dei leghisti i quali probabilmente rimpiangono il Regno lombardo-veneto (e come dargli torto?), un po' per l'azione di governo che sta progressivamente minando i cardini dell'Italia democratica (giustizia, istruzione, cultura, la stessa libertà d'espressione), proponendo un modello da terzo mondo e riportandoci indietro proprio di 150 anni, a quel mondo preunitario fatto di sopraffazioni, privilegi e ingiustizie.

Tra l'altro, invece di rimboccarsi le maniche, come stanno facendo un po' in tutto il pianeta, si aggiunge un'altra giornata di non lavoro alle tante che già esistono nel nostro paese. Per una volta tanto (forse l'unica) mi trovo d'accordo con quella caricatura di ministro (Calderoli) il quale ha affermato che bisognerebbe festeggiare lavorando.

Già. A nessuno è mai passato per la testa che in Italia si lavora poco?


sabato 12 febbraio 2011

Qualche osservazione sul soggiorno taiwanese

Non posso esimermi da qualche rapida osservazione sul mio ultimo soggiorno taiwanese. Perché ogni volta che vado lì trovo sempre qualcosa di nuovo, o magari qualcosa che vedo con occhi diversi. E' una scoperta continua, alimentata anche dalla mia voglia di conoscere e, devo aggiungere, dalla disponibilità di Francesco a offrirsi come valido cicerone.

Tanto per cambiare ci sono diversi tratti nuovissimi della metro. Sembra crescere a vista d'occhio, come una grande ragnatela che percorre tutta la città, e naturalmente ogni anno è necessario aggiornare la piantina che distribuiscono gratuitamente e capillarmente. Ho contato già un centinaio di stazioni, con treni sempre più belli. Vorrei tanto vedere la Salerno-Reggio Calabria in mano ai taiwanesi.

E a proposito di metro, ho viaggiato per la prima volta lungo la linea marrone, quella che porta verso est, fino allo zoo di Taipei. E' la più vecchia, con trenini un po' obsoleti e non collegati fra loro, che cammina tutta in sopraelevata e che, nell'ultimo tratto, è davvero spettacolare, muovendosi praticamente in mezzo al verde. In prossimità della stazione terminale c'è una bellissima funivia (loro la chiamano gondola) che porta a circa trecento metri di quota, su una delle alture che costeggiano la città. Non sarà la funivia del Monte Bianco, ma è suggestiva e, nelle (rarissime) giornate limpide offre un bel panorama di Taipei.

Sono anche andato a visitare la residenza estiva di Chiang Kai Shek, una sorta di immensa villa piena di piante e fiori di ogni genere: in pratica un orto botanico. I taiwanesi l'affollano a ogni ora del giorno, specialmente nelle belle giornate di sole, anche se di Chiang hanno ormai un ricordo piuttosto sbiadito, visto che se ne sta cancellando la memoria in tutta l'isola. Personaggio un po' ingombrante, forse, e testimone di un momento storico che si ritiene superato e assimilato. Cinque anni fa, quando andai a Taiwan per la prima volta, esisteva un gigantesco mausoleo dedicato a lui, l'aeroporto internazionale portava il suo nome e c'erano migliaia di sue statue sparse per tutta l'isola. Era ancora vivo e presente. Oggi non c'è più niente, Chiang è stato dimenticato, cancellato, anche se nei negozi di souvenir si trovano ancora gadget con la sua faccia.

Il tempo passa velocemente, a Taiwan, in tutti i sensi. Anche per me come semplice ospite. Ogni volta quelle tre settimane di soggiorno sembrano volare, e ho come l'impressione di non riuscire ad accogliere e metabolizzare tutte le sensazioni che mi colpiscono. Troppa materia per un uomo solo. Quando la realtà della mia vita quotidiana di eremita torna a prendere il sopravvento quella parentesi mi appare come un sogno, una costruzione della mente, bella e lontana nello spazio e nel tempo.

E' la materia di cui sono fatti i sogni, per citare Shakespeare. Poi mi sveglio e aspetto il momento in cui tornerò di nuovo a sognare.


martedì 8 febbraio 2011

Diario cambogiano

Niente diario taiwanese, come promesso.

Diario cambogiano, invece, visto che quattro dei diciassette giorni li ho passati proprio in Cambogia, uno dei tanti stati sfigati del sudest asiatico che però ha la fortuna di possedere uno dei siti archeologici più grandi e più belli del mondo: Angkor.

Edificato fra il IX e il XV secolo a cura di diversi re khmer (l'originario popolo cambogiano), si tratta di una vera e propria città con decine di templi e costruzioni di varia tipologia, anche monumentali, laghi, canali, ponti e strade, tutti in pietra arenaria e lavica. L'insieme è grandioso, spettacolare, un vero e proprio trionfo di architettura spesso abbellita da bassorilievi, sculture e decorazioni, e viene da domandarsi quanta fatica, quanto impegno economico e soprattutto quante vite umane sia costato un progetto del genere, che peraltro non aveva alle spalle un popolo di altissime capacità ingegneristiche come i romani. Il tutto in mezzo alla giungla.

E proprio la giungla si è lentamente reimpossessata del territorio, a partire dal quindicesimo secolo, quando il popolo khmer si è spostato più a sud, pressato dalla sempre maggiore aggressività dei vicini tailandesi. Per quattro secoli si è praticamente persa memoria di questa città, che è stata ricoperta dalla vegetazione. Solo a metà dell'Ottocento venne riscoperta quasi per caso da un archeologo francese e da allora è iniziato un lento recupero, con il sussidio di quasi tutte le nazioni del mondo (Angkor è patrimonio dell'umanità). Oggi il sito è frequentato da una media di oltre due milioni di turisti all'anno, ed è praticamente tutto visitabile, ma ci sono ancora milioni (probabilmente) di pietre crollate da risistemare come in un gigantesco puzzle che forse non potrà mai venir completato del tutto.

Luogo simbolo è un labirintico tempio chiamato Tah Prom, che è stato (in parte volutamente, in parte per obbiettive difficoltà di intervento) lasciato ancora parzialmente nelle grinfie della giungla: alberi giganteschi sono cresciuti addossati, o addirittura sopra i muri e i palazzi, e non si capisce se li proteggano o li minaccino. E' uno straordinario connubio fra opera dell'uomo e natura che è difficile descrivere a parole: bisogna vederlo, toccarlo con mano.

Per una descrizione meno sommaria vi rimando a qualche buona guida o, eventualmente, a una visita.

Naturalmente della Cambogia mi hanno colpito anche altre cose. Il nuovo, imponente flusso turistico ha portato soldi e lavoro a un paese che prima era fra i più poveri e disgraziati dell'Asia. Letteralmente massacrato da una feroce guerra civile che negli anni 60 e 70 ha dimezzato la popolazione con il famigerato regime comunista di Pol Pot e dei khmer rossi (non mi dilungo, ma Hitler al confronto era quasi una mammoletta), si è poi lentamente ripreso, ma ancora ci sono ampie sacche di povertà e si vedono. In prossimità dei templi si viene aggrediti da torme di bambini che vendono di tutto (libri, cartoline, magliette, frutta, piccoli oggetti di artigianato). Bambini straordinari, tra l'altro, che parlano una quantità di lingue in modo abbastanza fluido e che sono sì, insistenti, ma che alla fine anche se non compri niente ti salutano con un sorriso. Nella vicina città (Siem Reap, un borgo insignificante cresciuto negli anni a dimensioni spropositate, pieno di alberghi elegantissimi e brulicante di vita soprattutto notturna) non ci sono autobus, non ci sono taxi, ma ci sono i tuk-tuk, calessini a quattro posti tirati da motociclette (una sorta di versione moderna del riksciò) che ti portano dappertutto per somme modeste. Le strade sono asfaltate solo in parte, i mercati sono dimessi, non esattamente modelli di pulizia, ma animati, e dappertutto si ha la sensazione che i cambogiani siano un popolo di giovani: e in realtà lo sono, visto che il regime di terrore di Pol Pot ne ha fatti fuori a milioni. La loro moneta (il riel) non vale niente e il dollaro la fa da padrone (tanto per cambiare). In questi giorni (il loro inverno) si raggiungono tranquillamente i trenta gradi (la nostra estate). Non oso pensare che cosa sia la loro estate.

Fisicamente i cambogiani ricordano i vietnamiti: sono in effetti una via di mezzo fra gli indiani e gli asiatici veri e propri. Scuri di pelle, con lineamenti molto belli e modi assai gentili. E le donne sono fantastiche.

Per concludere, questa volta ho mangiato di tutto, anche a Taiwan: senza farmi troppe domande mettevo in bocca quello che mi ritrovavo davanti. Se mi piaceva bene, sennò lo lasciavo lì. Dopo cinque anni ho finalmente imparato l'approccio giusto. E molte cose le ho anche apprezzate. Non ho assaggiato il ragno fritto cambogiano, ma solo perché non ne ho avuto la possibilità. Chissà, se me lo avessero offerto forse avrei assaggiato anche quello.