mercoledì 26 novembre 2008

L'era dell'usa e getta

La settimana scorsa ho avuto un problema alla parabola e sono rimasto per qualche giorno senza televisione. Sono sopravvissuto lo stesso. Comunque ho avuto bisogno del tecnico, che si chiama Duilio, e quando è venuto a sistemare il problema ci siamo messi a parlare. Lui ha un piccolo negozio in cui vende elettrodomestici e gli ho chiesto come andassero le cose, visto che i piccoli stanno chiudendo tutti, schiacciati dalla concorrenza con i centri commerciali, gli ipermercati e via dicendo.

Mi ha risposto che sopravvive, perché lui offre qualcosa che i suoi avversari non sono in grado di offrire: se stesso. Un rapporto ancora umano con il cliente, assistenza, consigli, competenza. Un po' come succedeva con il negozietto di frutta sotto casa. E poi ha aggiunto: "Però non è più come una volta. Oggi quasi nessuno si fa riparare niente. Butta via e ricompra".

Questo mi ha fatto pensare. E' vero, viviamo nell'era dell'usa e getta. Se hai, poniamo un televisore vecchio che si è rotto, non vale più la pena di metterci le mani. Magari non si trovano nemmeno i pezzi di ricambio, e alla fine ti ritrovi fra le mani sempre un televisore vecchio, dopo aver speso una cifra con la quale probabilmente potevi ricomprartelo nuovo, o quasi.

E' un trend irreversibile, e forse non c'è nemmeno da scandalizzarsi troppo. Però non posso fare a meno di pensare che una volta le cose non andavano così. Una volta non si buttava via niente. Avevi un paio di scarpe rotte? Le portavi a riparare dal ciabattino, che lavorava di martello e di chiodi e te le restituiva quasi nuove con una spesa modesta. Avevi un cappotto consumato? Lo facevi rigirare e ci andavi avanti per altri dieci anni. Ti avanzava qualcosa da mangiare? La riciclavi e la riproponevi il giorno dopo sotto altra forma. Ti serviva un vestito per la prima comunione? Una brava sarta era capace di trasformare il vecchio abito da sposa di mamma in un vestitino più che decoroso per l'occorrenza. E quando non serviva più se ne ricavava magari una tenda e un centrino per la tavola. Ti si sfilava una calza? C'era il modo di aggiustare anche quella.
Non sto dicendo che fosse meglio prima (anzi, con ogni probabilità era peggio), sto solo notando quanto sia cambiato il nostro modo di vivere. Una volta si campava di espedienti, e a volte ci si doveva ingegnare per farlo. Oggi non c'è nessun bisogno di faticare. La società dell'opulenza ti mette a disposizione tutto, più presto e spendendo di meno. Magari quello che compri durerà pochissimo, ma chi se ne frega? Quando sarà necessario si butta e si ricompra. Così facciamo contento Berlusconi.

martedì 18 novembre 2008

Scrivere partendo dal nulla

Che scrivete quando non avete niente da scrivere? Niente, appunto. Ecco, io sono bravissimo a scrivere di niente. Lo facevo a scuola, quando allungavo il brodo dei temi per arrivare almeno alla quarta facciata e per farli sembrare più profondi (qualche volta lo erano, dipendeva dalla qualità dell'ispirazione). Lo facevo quando scrivevo di cinema e magari dovevo parlare di un film brutto ma siccome non si può dire che un film è brutto e basta, allora bisogna inventarsi tutta un'architettura verbale per esprimere lo stesso concetto in modo diverso e più elegante. E lo faccio ancora adesso, qualche volta, se mi capita di dover scrivere qualcosa che proprio non mi esalta (tipo quando ti dicono "mi servono quattro pagine sul tale argomento", del quale non ti interessa una beneamata minchia), ma sono costretto a farlo lo stesso. La lingua italiana è così ricca di vocaboli e di locuzioni che davvero c'è solo il problema della scelta.

Ma la vuotezza di contenuti è anche una pratica diffusa in molti degli scrittori di oggi, anche in quelli che vanno per la maggiore. Non faccio nomi, per carità, ma ce ne sono alcuni che davvero si scrivono addosso, e alla fine del libro uno si domanda: embè? Che ha detto? Di che mi ha parlato? Di niente, infatti, ma lo ha fatto con una tale leggerezza, con una così sapiente scelta lessicale e sintattica che sembra abbia scritto un trattato filosofico. Forse è per questo che sugli scaffali delle librerie ci sono troppo libri. Ma basta con questi scrittori adolescenti, con le notti prima degli esami, con i romanzetti fantasy che spuntano a ogni pie' sospinto, con le storie minimaliste di banalità quotidiane che non interessano a nessuno, con i tormentoni psicologico-amorosi, le rimasticazioni dell'adolescenza che fu, i ricordi della guerra, i diari tirati fuori dal cassetto. Basta, apriamo un po' le finestre e facciamo prendere aria alla stanza....

Ecco, vedete? Ero partito con la testa vuota come una zucca e mi sono ritrovato come per miracolo a mettere insieme un discorso un po' polemico, se vogliamo, ma di una certa sostanza. Certe volte basta davvero limitarsi a prendere la penna (o la tastiera) in mano, e il soffio della creazione sgorga da solo. Provare per credere.

 

martedì 11 novembre 2008

L'elezione di Obama

Mi si chiede da più parti... be', non esageriamo, mi si chiede da almeno due parti di esprimere il mio pensiero sull'elezione di Obama.

Premesso che la mia opinione vale quello che vale, penso che tutti siamo d'accordo sull'assunto: meglio Obama che McCain. E che siamo anche d'accordo sull'altro assunto: peggio di Bush jr. nessuno potrà fare. Probabilmente anche il povero McCain sarebbe stato un presidente migliore.
Detto questo, però, non posso non esprimere anche una sensazione a fior di pelle. Obama è giovane, bello e abbronzato... oops, volevo dire di colore. E' troppo giovane, bello e di colore per essere vero. Sembra costruito su misura per andare incontro a istanze di rinnovamento sul piano anagrafico, estetico e razziale. Insomma, il presidente che tutti (o quasi) si auguravano dopo gli otto anni di grigiore dell'era Bush.

Non sarà forse un'operazione di facciata, un calcolato lavoro di maquillage, in sostanza la creazione del primo presidente degli Stati Uniti esclusivamente e totalmente mediatico, magari solo un bel burattino nelle mani di chi scuce i soldi? Perché di soldi ne ha spesi una valanga, il buon Obama, e non erano per niente suoi. Normale amministrazione, nelle elezioni americane: ci sono sempre degli sponsor che finanziano i candidati. Ma in cambio che chiedono? Che garanzia abbiamo che questo neopresidente dall'aria di bravo ragazzo (un po' kennediano, vogliamo dirlo?) sappia tirar fuori l'esperienza, il coraggio e la forza di scegliere veramente da solo?

Certo, dietro un presidente USA c'è sempre uno staff di superesperti al suo servizio (l'ho imparato in molti telefilm americani, tipo "24", e anche lì c'è un presidente nero, anzi ce ne sono due, perché il primo viene ammazzato), e dunque le sue decisioni in politica estera e in politica interna non sono mai del tutto sue, ma di un insieme di persone che però è lui a dover scegliere. E in un momento storico delicato come questo non ci si può più permettere di sbagliare.

Staremo a vedere. Per il momento godiamoci la festa anche noi. Come ha fatto il nostro premier, il quale deve avere una vocazione all'avanspettacolo, perché ogni tanto se ne esce con qualche battuta. Il problema è che nessuno le capisce, e allora è meglio che cambi mestiere (né politica né spettacolo, mi verrebbe da dire, ma nella vita non si può avere tutto).

Aridatece Totò.

martedì 4 novembre 2008

Perché mi chiamo Horselover

Mentre attendo trepidante la partita di stasera, fra i resti della Roma che fu e una delle squadre più forti d'Europa, mi sovviene che non ho mai spiegato al colto e all'inclita da dove derivi quello strano nick con cui mi presento in questo blog.

Horselover. Traducendo: colui che ama i cavalli. Ora, io non amo affatto i cavalli, anzi di loro non ne ne potrebbe fregare di meno. Casomai dovrei chiamarmi catlover, e invece ho scelto l'altro. Vi sarete chiesti perché (e se non lo avete fatto non posso biasimarvi, ci sono cose più importati nella vita a cui dedicarsi nelle ore libere).

La spiegazione è semplice, e ha a che fare con il mio scrittore preferito, quel Philip K. Dick di cui ogni tanto parlo e su cui prima o poi vi terrò una lezione di dottorato.
Dunque, dovete sapere che in uno dei suoi ultimi romanzi, dal titolo VALIS, Dick scelse di raccontarsi in un personaggio autobiografico che si chiama Horselover Fat. Be', questo non spiega niente, direte voi. E invece sì, perché il nostro che cosa fece, non avendo evidentemente nemmeno lui niente di meglio da fare? Modificò fantasiosamente il proprio nome (Philip) risalendo alla radice greca di Filippo, philippos, cioè amante dei cavalli, e tradusse il proprio cognome, ma questa volta utilizzando la lingua tedesca. Infatti "dick" in tedesco significa "grasso". In inglese "fat". Una commistione linguistica, un gioco, in sostanza, perché fra altre cose, quando non era in depressione, o alle prese con i suoi inferni personali, o perso in qualche mondo strano indotto dalla droga, Dick era un gran burlone.

Ecco spiegato l'arcano. Avrei potuto scegliere fra tanti altri nomi presi dai suoi romanzi: uno di quelli che mi piace di più è Joe Chip, e un altro Herbert Schoenheit von Vogelgang (anche se questo è un po' troppo lungo), ma Horselover mi intrigava perché ha qualcosa di fascinoso, di evocativo.
Però potete anche chiamarmi semplicemente Maurizio.