lunedì 29 ottobre 2012

Trentasette anni fa, ora più ora meno, nasceva mio figlio Francesco. Che ha rischiato di chiamarsi Sebastiano, un nome che a mia moglie piaceva molto. A me no, così abbiamo trovato un compromesso con quello del poverello di Assisi.
Appena venuto al mondo era già bellissimo e si guardava intorno, fresco come una rosa, con gli occhioni aperti, come a dire: che ci faccio qui? Come oggi era una bella giornata di fine ottobre, ancora incerta fra l'autunno e l'inverno. Sua madre entrò in ospedale con gli abiti leggeri e ne uscì con quelli pesanti.
Francesco è stato da subito un bambino esemplare. Troppo orgoglioso per rompere le scatole inutilmente, ha pensato bene fin dall'inizio di comportarsi da neonato modello: mangiava, dormiva, cresceva e non dava fastidio a nessuno. Mi ricordo che ce lo portavamo nelle gite domenicali sistemandolo sotto il lunotto posteriore della 126: lui se ne stava lì tranquillo, guardava il mondo e probabilmente già pensava a che fare della sua vita. Allora di sedili per bambini e cinture di sicurezza nemmeno a parlarne. Si viveva pericolosamente.
Successivamente è stato anche uno studente modello. Non ricordo mai una volta di averlo dovuto aiutare a studiare o a fare i compiti, dalle elementari a tutto il liceo. Non dava mai l'impressione di ammazzarsi sui libri: faceva il minimo indispensabile per essere promosso. Io mi sono sempre fatto un culo così e alla maturità mi hanno anche rimandato in matematica e (orrore!) italiano. Ma erano altri tempi. Era ancora la scuola pre-sessantotto.
Insomma, Francesco è uno che si è fatto da solo. Finito il liceo è stato preso dal sacro fuoco dell'Oriente. Prima la Russia, ma fu un amore passeggero, poi la Cina e infine Taiwan, dove ha trovato il suo paradiso, ha messo radici e ha avuto la fortuna di non dover combattere con i mostri del berlusconismo. Ha avuto anche la fortuna disposare una donna deliziosa e insieme hanno messo al mondo un bambino altrettanto delizioso.
Adesso è un uomo maturo e realizzato ed è ancora l'orgoglio di suo padre, dal quale ha preso molto, ma per fortuna non tutto. Ama leggere, ha una visione ironica del mondo e una mente aperta quanto basta per non fossilizzarsi.
Ha un solo difetto, che per quanto abbia fatto non sono mai riuscito a correggere: è agnostico in fatto di calcio. L'ho portato tante volte a vedere la Roma sperando che si accendesse in lui la sana passione dei colori giallorossi, ma senza grandi risultati.
Peggio per lui: non saprà mai quello che si è perso.

mercoledì 17 ottobre 2012

Mi considero un uomo fortunato. Almeno in campo lavorativo. Ho sempre svolto attività che mi piacevano,  e quasi sempre sono stato pagato per svolgerle. Ho scritto di sport e cinema, soprattutto, ma anche di cronaca.
A vent'anni lavoravo per un giornaletto romano che si chiamava Record. Tutte le domeniche andavo sui campetti di periferia a seguire le partite dei campionati dilettanti e poi preparavo un servizio con tabellini, marcatori e un minimo di cronaca. Una volta mi è anche capitato di seguirne due contemporaneamente: c'erano due campi di calcio uno attiguo all'altro e io guardavo di qua e di là cercando di non fare confusione. Ci sono riuscito, ma con gran fatica. Non mi hanno mai pagato.
Poi ho scritto per un paio d'anni sul Corriere dello sport. C'era allora una piccola ma vivace rubrica che si chiamava Cronache romane e mi mandavano di qua e di là a fare articoletti su fatti e personaggi di minima, o nessuna importanza, ma io mi divertivo e intanto mi facevo le ossa. E mi pagavano pure. Ad articolo, naturalmente.
Per anni ho scritto di cinema e nel 1972 sono stato anche inviato speciale al Festival di Cannes dove conobbi un giovanissimo Giancarlo GIannini che partecipava con il film Mimì Metallurgico ferito nell'onore.
In seguito ho aperto un negozietto di libri usati insieme al mio amico Walter, e poi un secondo per conto mio. Mi è servito per campare finché non ho vinto il concorso al Ministero beni culturali nel 1976. Non avevo la licenza e ho lavorato abusivamente per oltre un anno e mezzo prima che il Comune di Roma se ne accorgesse, ma a quel punto non me ne poteva fregare di meno. Ero già un impiegato statale.
Mi hanno mandato a Pavia (Biblioteca Universitaria), poi a Macerata  (Archivio di Stato) e infine, sempre a Macerata, alla neonata Biblioteca Statale, dove ho concluso gloriosamente la mia carriera.
Ho trovato anche il tempo di pubblicare, insieme al mio amico Sandro, tre numeri di una bellissima rivista di fantascienza (1976) che purtroppo ha chiuso i battenti prematuramente per via di un editore un po' sciagurato.
E ho scritto un libro sulla storia di una chiesina maceratese del Trecento.
E un altro su un manoscritto ottocentesco.
E da quasi quarant'anni traduco romanzi e racconti, con immutata soddisfazione.
Tutte esperienze bellissime, sempre in mezzo ai libri, alle carte, o comunque in ambiti stimolanti e creativi. Le rifarei tutte perché hanno reso interessante la mia vita. E il bello è che molte posso farle ancora.

sabato 6 ottobre 2012

Colto da repentina smania consumistica mi sono comprato un bel notebook (Samsung). Ci navigo e ci scarico, mentre sul vecchio PC ci lavoro. Certo, un conto è scrivere su una tastiera vera, un altro è scrivere su quella di un portatile. Nel primo caso vado velocissimo, nel secondo come una lumaca, per il momento, ma spero di migliorare.
Ho anche cambiato provider, adesso uso un router WiFi della Tre che ha un segnale ottimo, e ho dismesso Vodafone.
Lo riconosco, sono innamorato delle nuove tecnologie. Non tanto di quelle dei cellulari (viaggio ancora con un semplice Dual Sim di vecchia generazione), ma per quanto riguarda computer e annessi rimango incantato da quello che sanno fare. Lo consideriamo normale, ma certe volte a me sembra una diavoleria e quelle menti geniali che ci hanno lavorato mi appaiono come degli stregoni che fanno incantesimi.
Attraverso la rete io scarico, navigo, condidido, comunico, leggo, compro, m'informo, ma mica lo so bene quello che succede. O meglio, lo so in teoria, ma in pratica mi sfugge tutto, a cominciare dall'architettura di base che prevede le informazioni ridotte a bit, pezzetti infinitesimali, alternanze di zeri e di uno, e via dicendo. Nonostante me la cavi abbastanza come smanettone, sono a tutti gli effetti un utente passivo.
Credo si tratti della più grande (e più veloce) rivoluzione nella storia del genere umano, e inferiore come importanza (forse) solo alla rivoluzione industriale. Trent'anni fa (poco più di una generazione) eravamo dei poveri cristi che scrivevamo a mano o a macchina, facevamo i conti con la calcolatrice, leggevamo il giornale o guardavamo la televisione per sapere quello che succedeva nel mondo, usavamo il telefono fisso e quello a gettone e facevamo la spesa pagando in contanti o con assegni. In trent'anni il mondo è cambiato, e siamo cambiati noi.
Se in meglio o in peggio non lo so. Di certo la vita è più comoda sotto molti punti di vista, ma forse abbiamo perso qualcosa. Mi raccontava la gentile titolare del Tre Store una storia esemplare in tal senso. Un ragazzo entra in negozio per acquistare un telefonino. Lei lo vede triste e abbacchiato e gli chiede cos'abbia. Lui risponde che si è lasciato con la ragazza. Mi dispiace, dice lei, era da tempo che stavate insieme? No, risponde lui, da pochi mesi. Per farla breve è venuto fuori che i due si erano conosciuti in una chat e si erano innamorati, ma non si erano mai visti. Un amore solo virtuale.
Mi sto ancora domandando se questa cosa mi fa ridere o piangere.