sabato 28 gennaio 2012

Sta per uscire il penultimo romanzo che ho tradotto per Fanucci. Anzi no, questa volta non si tratta di un romanzo, ma di una storia vera, anche se a leggerla si stenta a crederlo.
Tutti voi sapete che sono un grande appassionato di Philip K. Dick, grande autore di fantascienza e non solo, e da diversi anni saccheggiato dai produttori di Hollywood che ne hanno ricavato film di diverso valore e successo: da un capolavoro come Blade Runner, a film decorosi come Total Recall e Minority Report, a piccole chicche come A Scanner Darkly di Richard Linklater (se non lo avete visto vi consiglio di procurarvelo, ne rimarrete stupiti), per finire con una quantità di blockbusters che dell'originale dickiano hanno solo l'idea e poco altro.
Insomma, Dick è diventato quello che si dice un autore di culto. A tal punto che nel 2005 due giovani scienziati americani, David Hanson e Andrew Olney, hanno progettato e costruito una replica in tutto e per tutto uguale a lui: un androide, in poche parole, cioè un robot antropomorfo capace di parlare e di sostenere conversazioni. E questo androide si è esibito in diverse città americane riscuotendo sempre grande successo. In realtà hanno costruito solo la testa, aggiungendovi poi un corpo, una specie di manichino, per completare l'impressione di trovarsi di fronte a un essere umano. Seduto su un divano, l'androide Dick era in grado di guardarti in faccia, rispondere alle tue domande e addirittura fartene lui stesso. Quella testa era un gioiello di elettronica e il bello era che non c'era nessuno dietro a farla funzionare: agiva da sola grazie a un sofisticatissimo software di riconoscimento del linguaggio e a una quantità di altri programmi di altissima ingegneria informatica.
Be', proprio quella testa andò perduta nel gennaio del 2006 nel corso di un volo da Dallas a Las Vegas e non fu mai ritrovata. David F. Dufty, scienziato anche lui, che ha partecipato sia pure marginalmente al progetto, ci racconta tutta la storia. Una storia che sembra davvero un romanzo, un romanzo che avrebbe potuto scrivere solo Philip K. Dick.
Per chi fosse interessato: Lost in Transit: la strana storia dell'androide Philip K. Dick, di David F. Dufty, di prossima pubblicazione da Fanucci.

domenica 15 gennaio 2012

Stranamente, anche se sono in pensione, continuo ad adeguarmi al vecchio sistema giorni feriali/giorni festivi. Anche se per me non ci sarebbe nessuna differenza. Che m'importa se è domenica o lunedì? Faccio comunque quello che mi pare, no? Se ne ho voglia lavoro, sennò... be', faccio altro.
E invece no. Oggi è domenica e così non lavoro (leggi: non traduco), mi mangerò le mie solite lasagne dell'Eurospin e la mia solita bistecca e mi verrà un po' di malinconia via via che la giornata volge al termine (quella storia del Sabato del villaggio e della Sera del dì di festa cui accennavo in altro post).
Strana cosa, la mente umana. Strano come i condizionamenti persistano anche quando vengono a mancare i presupposti degli stessi. Be', direte voi, senno' non sarebbero condizionamenti. Giusto. Basti pensare alla storia di chi sente dolore a un braccio o ha voglia di grattarselo anche quando gli è stato amputato. Si chiama sindrome dell'arto assente, o qualcosa del genere.
Ma credo che nel mio caso non ci vorrà molto per liberarmi dalle antiche abitudini. In realtà già adesso mi capita ogni tanto di non ricordarmi che giorno è. Certo, potrebbe essere un anticipo di demenza senile, ma sono più portato a credere che sia invece la prova che per me a questo punto un giorno vale l'altro. E quando vado a trovare i miei ex-colleghi in biblioteca e li vedo affannarsi fra impegni e orari da rispettare, be', sarà brutto, ma mi sento libero. Come un puledro fuori da una stalla che corre felice sui prati
E il meglio deve ancora venire.

giovedì 5 gennaio 2012

Stamattina sono andato dalla mia dottoressa per farmi prescrivere i soliti farmaci, queli che prendo da dieci anni e che prenderò fino alla fine dei miei giorni. Tre, per la precisione.
Cartello sulla porta: sono in ferie dal 27 dicembre fino all'8 gennaio, rivolgersi alla mia sostituta, all'altro ambulatorio. OK, te la spassi, Sabina, fai bene. Vado nel pomeriggio all'altro ambulatorio. Cartello sulla porta: giorno prefestivo, CHIUSO.
Prefestivo un par di palle! Non è un giorno lavorativo come gli altri, un volgarissimo giovedì? Che me ne frega se domani è l'Epifania? Ti costa troppo lavorare oggi, brutta stronza di una sostituta? Già apri solo quattro mezze giornate a settimana, non sia mai che dovessi stancarti. O forse devi preparati per scendere domani dal camino e consegnare i regali ai tuoi nipotini?
Lo vado ripetendo da tempo, in Italia quella che manca è la voglia di lavorare. Siamo abituati male, tra feste, prefeste, postfeste, ponti, vacanze e orari ristretti.
Qualcuno del nuovo governo propone di liberalizzare gli orari dei negozi. Apriti cielo! Aiuto, i piccoli commercianti chiuderanno a vantaggio della grande distribuzione. Chi l'ha detto? Certo, il negozietto sotto casa non può competere a livello di prezzi, ma può sopperire con la gentilezza, la disponibilità, l'assistenza ove occorra, e con un'apertura più logica e vicina ai cittadini. Perché tutti devono aprire e chiudere alla stessa ora? Chi va in giro a fare compere alle otto o alle nove del mattino? Aprite alle dieci e chiudete un po' più tardi la sera, o meglio ancora, organizzatevi per stare aperti di più, perché no, anche di notte, ove ne valga la pena. E poi io nei negozietti ci vado volentieri, la grande distribuzione, gli ipermercati, i centri commerciali mi mettono a disagio, e non trovo nemmeno che offrano tutta questa gran convenienza. Tante offerte civetta e poi siamo lì, più o meno i prezzi si equivalgono. Meglio l'Eurospin, allora, pur con tutti i suoi limiti.
Vabbe', tanto l'Italia è questa e non c'è Monti che possa cambiarla.
In compenso la mia vita da pensionato non è poi così male. Niente orari, niente impegni: solo quelli che mi scelgo da me. Il mondo mi gira intorno impazzito e io me ne sto tranquillo in campagna a badare ai miei gatti e a respirare aria buona, contento di quello che ho: il necessario e un po' di superfluo. La formula della felicità.