Per Pasqua sono stato a Roma, la città in cui sono nato e in cui sono vissuto fino a trent'anni. La città dove ancora vivono tanti miei parenti. La città dalla quale in pratica sono scappato, rifugiandomi in una regione tranquilla e contadina, passando nel tempo dalla grande città alla piccola città, dalla piccola città alla campagna. La prossima tappa è l'isola deserta o il faro sul promontorio.
Ogni volta che torno a Roma non vedo l'ora di fuggirne. E' troppo rumorosa,
troppo sguaiata, troppo affollata, troppo sporca. Una sgualdrina senza più
classe, appesantita dal trucco, incapace di sedurre se non con i suoi aspetti
più vistosi e celebrati (che ai miei occhi di romano non possono più avere lo
stesso fascino), con il ricordo di una bellezza fatta merce a basso costo per
torme senza fine di turisti frettolosi, fagocitati dall'industria esasperata
del turismo. Una Roma da supermercato.
La ricordo ancora com'era negli anni cinquanta e inizio dei sessanta, bella ma
vivibile, senza troppo traffico, profumata in tutte le stagioni, incantevole
perché non ancora artefatta, non ancora trasformata in metropoli, non ancora
messa in (s)vendita, né svilita da molti suoi figli. Era forse
Ci sono solo due cose che rimpiango di Roma, oltre al ricordo di com'era una
volta: il clima e l'acqua. Lì non c'è bisogno di cappotti, tranne per poche
settimane d'inverno. E non c'è bisogno di acqua minerale, perché quella che
sgorga dalle mille fontane e fontanelle (i nasoni, per i non romani) è una delizia impareggiabile. Troppo
poco per cambiare idea e tornare sui miei passi.
Nessun commento:
Posta un commento