Altri sei morti italiani in Afghanistan.
Al di là della pietà umana per
loro e per le loro famiglie, non posso fare a meno di osservare che si tratta
di militari professionisti spediti in un luogo di guerra dietro loro esplicita
richiesta, e dunque profumatamente pagati per svolgere questo incarico. Che
comporta dei pericoli. Un po' come un pilota di Formula Uno: sa benissimo che il
suo è un mestiere a rischio e dunque se gli succede qualcosa deve prendersela
solo con se stesso.
Questi piccoli rambo,
probabilmente ragazzi che non avevano altre opportunità nella vita, hanno perso
la vita in una guerra che non gli apparteneva, e certamente erano convinti di
fare la cosa giusta. Però una guerra è sempre una guerra, specialmente questa,
che si combatte a colpi di autobombe e di attentati, e il rischio di lasciarci
le penne è sempre dietro l'angolo.
Si potrebbe poi discutere sull'opportunità dell'intervento militare italiano in
Afghanistan. Personalmente sono convinto che una democrazia non si esporti, né
si imponga con la forza delle armi: deve nascere spontaneamente dal basso, dai
cittadini, sulla spinta stessa di legittime esigenze di libertà e di giustizia.
Ma dal momento che in quella parte del mondo la libertà e la giustizia sono
concetti del tutto personali, il più delle volte condizionati da interessi
nemmeno troppo nascosti o dal fanatismo religioso, allora devo aggiungere che
sì, può anche essere giusto aiutare chi non ce la fa da solo a trovare la
strada. In questo senso mi trovo d'accordo con le tante missioni umanitarie e
di sostegno a ogni processo di crescita democratica. Compreso quello italiano
in Afghanistan.
Purché sia chiaro a tutti che non è una passeggiata, e che può anche succedere
che qualcuno perda la vita. Non è un eroe, ma semplicemente uno dei tanti
caduti sul lavoro.
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