La guerra delle donne è silenziosa, spietata, incessante. Una guerra non dichiarata che parte da lontano, dalle suffragette, dalla rivoluzione femminista degli anni sessanta, per arrivare alle quote rosa e alle novità nel campo del diritto di famiglia. Magari le donne si sono dimenticate di rinunciare a qualche privilegio che invece si tengono ben stretto, alla faccia della parità, ma questa è un'altra storia.
Adesso
la guerra si sposta sul piano semantico. Vogliono cambiare le parole. Perché,
sostengono loro, dire il "senatore" Maria Rossi, quando esiste la
forma femminile "senatrice"? Analogamente per "ispettore"
(ispettrice), "ambasciatore" (ambasciatrice), "lettore"
(lettrice) e via dicendo. Giusto.
Le cose si complicano un po' quando scopro che non si deve dire la
"studentessa", bensì la "studente", non la
"vigilessa" ma la "vigile", non la "poetessa" ma
la "poeta", non la "avvocatessa" ma la "avvocata"
(mai "avvocato" riferito a una donna, per carità!).
Ohibò,
qui si vogliono cambiare abitudini radicate, minare alla base le nostre
certezze linguistiche.
E così di questo passo troviamo la "ministra", la
"pretora", la "assessora", la "chirurga", addirittura
la "arbitra".
Ma
il bello deve ancora venire. Non esiste ancora il sacerdozio femminile, ma
quando esisterà avremo nientedimeno che "la prete". Avete letto bene:
la prete. Oppure "la sacerdote". Perché giustamente prete e sacerdote
non sono sostantivi maschili e quel s.m. (singolare maschile) che troviamo in
tutti i dizionari della lingua italiana è soltanto una volgare prevaricazione
perpetrata dai linguisti ai danni delle donne.
Se
non ne avete abbastanza potete andare a leggervi altre amenità del genere nelle
Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana
all'indirizzo: http://www.provincia.rimini.it/informa/statistiche/altre/2003_genere/allegati/linguaggio.PDF.
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