venerdì 20 aprile 2007

Un uso non sessista della lingua

La guerra delle donne è silenziosa, spietata, incessante. Una guerra non dichiarata che parte da lontano, dalle suffragette, dalla rivoluzione femminista degli anni sessanta, per arrivare alle quote rosa e alle novità nel campo del diritto di famiglia. Magari le donne si sono dimenticate di rinunciare a qualche privilegio che invece si tengono ben stretto, alla faccia della parità, ma questa è un'altra storia.

Adesso la guerra si sposta sul piano semantico. Vogliono cambiare le parole. Perché, sostengono loro, dire il "senatore" Maria Rossi, quando esiste la forma femminile "senatrice"? Analogamente per "ispettore" (ispettrice), "ambasciatore" (ambasciatrice), "lettore" (lettrice) e via dicendo. Giusto.
Le cose si complicano un po' quando scopro che non si deve dire la "studentessa", bensì la "studente", non la "vigilessa" ma la "vigile", non la "poetessa" ma la "poeta", non la "avvocatessa" ma la "avvocata" (mai "avvocato" riferito a una donna, per carità!).

Ohibò, qui si vogliono cambiare abitudini radicate, minare alla base le nostre certezze linguistiche.
E così di questo passo troviamo la "ministra", la "pretora", la "assessora", la "chirurga", addirittura la "arbitra".

Ma il bello deve ancora venire. Non esiste ancora il sacerdozio femminile, ma quando esisterà avremo nientedimeno che "la prete". Avete letto bene: la prete. Oppure "la sacerdote". Perché giustamente prete e sacerdote non sono sostantivi maschili e quel s.m. (singolare maschile) che troviamo in tutti i dizionari della lingua italiana è soltanto una volgare prevaricazione perpetrata dai linguisti ai danni delle donne.

Se non ne avete abbastanza potete andare a leggervi altre amenità del genere nelle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana all'indirizzo: http://www.provincia.rimini.it/informa/statistiche/altre/2003_genere/allegati/linguaggio.PDF.

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